La fotografia: 2 secoli di evoluzioni tecnologiche

La ricerca di uno strumento capace di registrare il mondo tramite l'effetto della luce è iniziata fin dai tempi dell'antica Grecia. Si ritiene che nel 1790 avvenne la prima impressione di un'immagine chimica su carta a seguito delle ricerche effettuate dall'inglese Thomas Wedgwood...
del 30/08/10 -

La ricerca di uno strumento capace di registrare il mondo tramite l'effetto della luce è iniziata fin dai tempi dell'antica Grecia.
Si ritiene che nel 1790 avvenne la prima impressione di un'immagine chimica su carta a seguito delle ricerche effettuate dall'inglese Thomas Wedgwood (figlio di un famoso ceramista di quel tempo); per problemi di salute i suoi studi vennero interrotti, furono ripresi da Sir Humphry Davy (suo amico) che descrisse lo strano comportamento del nitrato d'argento sul "Journal of the Royal Institution of Great Britain", annotando che non era stato compreso il meccanismo per poterne interrompere il processo di sensibilizzazione. Le immagini riprodotte infatti non si stabilizzavano e perdevano rapidamente contrasto se rimanevano esposte alla luce naturale, mentre se riposte all'oscurità potevano essere viste alla luce di una lampada ad olio o di una candela senza perderne le caratteristiche.

In realtà, una vera tecnica fotografica affidabile e ripetibile, si concretizzò solamente nel 1839 quando Louis Jacques Mandé Daguerre realizzò il primo procedimento fotografico stabile della storia.
Venne chiamato dagherrotipia (dal suo nome Daguerre), la tecnica permetteva di fare riproduzioni fotografiche monocromatiche direttamente su una lastra di rame lucidata, trattata con opportune sostanze ed esposta per tempi lunghissimi (oltre 10 minuti) verso il soggetto da riprodurre.

L'immagine ottenuta, il dagherrotipo, non è riproducibile e deve essere osservata sotto un angolo particolare per riflettere opportunamente la luce. Inoltre, per evitare il rapido annerimento dell'argento e per la fragilità della lastra, il dagherrotipo veniva spesso confezionato sotto vetro, all'interno di un cofanetto impreziosito da eleganti intarsi in ottone, pelle e velluto, volti anche a sottolineare l'alto valore dell'oggetto o del soggetto raffigurato in esso.

La dagherrotipia ottenne un rapido successo in tutto il mondo, permettendo a chiunque di poter riprodurre fedelmente l'ambiente circostante. All'inizio erano predominanti i paesaggi e le nature morte a causa dei lunghi tempi di esposizione necessari, successivamente, con l'affinarsi del procedimento e con l'uso di obiettivi più luminosi, iniziarono anche i ritratti e alcuni timidi tentativi di fotogiornalismo.

Negli anni a venire molti ricercatori provarono a migliorare la tecnica nell'intento di ridurre i tempi di esposizione e poter rendere riproducibile l'immagine registrata da quelle primordiali fotocamere.
Quasi negli stessi anni William H. Fox Talbot mise a punto un procedimento fotografico per lo sviluppo di immagini riproducibili con la tecnica del negativo/positivo. Dopo anni di studi (iniziati nel 1833), nel 1841 brevettò la Calotipia (dalle parole greche kalos = bello e typos = stampa) era anche detta "talbotipia" (dal nome dell'inventore) o anche "disegno fotogenico".

A differenza del metodo di Daguerre, la calotipia permetteva di produrre copie di un'immagine utilizzando anche più volte il negativo. La qualità della stampa risultava però molto inferiore rispetto al dagherrotipo, soprattutto nei dettagli e nelle sfumature. Inoltre, la possibilità di ottenere immagini riproducibili, non rendeva il prodotto calotopico prezioso al pari dell'opera unica che era un dagherrotipo.
Di fatto iniziò da qui la storia della fotografia industriale come la si può intendere oggi.

Successivamente le varianti al sistema nacquero come i funghi: nel 1849 nacque la ambrotipia che era un procedimento fotografico per la realizzazione di immagini su lastre di vetro. Fu messo a punto dall'inglese Frederick Scott Archer e Gustave Le Grey (Francia), quest'ultimo però non rese pubblici i suoi esperimenti, lasciando tutto il credito dell'invenzione ad Archer. Il procedimento fu brevettato da James Ambrose Cutting di Boston e venne importato in America, ma rimase fondamentalmente di pubblico dominio in tutto il mondo. La tecnica assunse il nome di ambrotipia dal nome di Ambrose (e anche dal greco ambrotos = immortale).
Nel Nuovo Continente si diffuse ben presto una variante a questo processo, chiamato ferrotipia, ideata dal professor Hamilton Smith nel 1856: fondamentalmente la tecnica rimaneva la stessa, ma cambiava il supporto. Il vetro fu sostituito con lastre metalliche laccate (normalmente lastre di ferro, latta o alluminio, da cui il nome ferrotype o tintype).
A differenza del dagherrotipo, la visione dell'ambrotipo avveniva senza la necessità di inclinare la lastra, però a causa del ridotto contrasto causato dall'assenza di bianchi puri, che venivano realizzati in gradazioni di grigio, era necessaria una buona fonte di luce per la visione ottimale. L'ambrotipia, che era essenzialmente un negativo su vetro, spianò la strada alla stampa di fotografie su carta in una qualità superiore a quella ottenuta dalla calotipia. Il procedimento era piuttosto economico e permise una rapida diffusione e un utilizzo protratto fino agli inizi del XX secolo.




Nel 1855 Louis-Alphonse Poitevin (Germania) ideò la collotipia, essa fu una tecnica di stampa artigianale che si diffuse nel mondo anche col nome di Albertype. Su di una matrice, costituita da una lastra di cristallo, veniva steso uno strato uniforme di emulsione fotosensibile, che doveva essere sottoposta a cottura per alcune ore prima di poter essere impressionata dal negativo fotografico dell'immagine da stampare.
Seguiva poi l'inchiostratura manuale a spatola, che permetteva di mantenere un costante aggiornamento sulla quantità e sui toni del colore dove l'intensità è i contrasti venivano determinati dal diverso grado di sviluppo della lastra. La collotipia permetteva di stampare da ciascuna matrice un numero limitato di copie (la tiratura ottimale è tra le 300 e le 500 copie da ciascuna lastra). Dopo una certa quantità di passaggi, infatti, la gelatina si deteriora facendo perdere all'immagine la sua incisività.
Con la tecnica della collotipia, ancora oggi, vengono stampate immagini fotografiche antiche e moderne. Fino agli anni '50, comunque, veniva utilizzata normalmente anche per riprodurre le cartoline postali illustrate.
Potrei azzardare che questa tecnica fu una specie di antenato della litografia industriale di oggi (dove però la differenza tonale delle sfumature è continua e non retinata come oggi).

Tralasciando altre varianti storiche, possiamo affermare che queste differenziate tecniche di riproduzione portarono (e portano ancora oggi) ad un enorme interesse di pubblico per questa nuova branca artistica. La tecnica era semplice e facilmente realizzabile, la versatilità era enorme ed ogni interessato poteva dimostrare le proprie capacità creative con piccoli mezzi ed in molti e diversificati settori.

La moda dei ritratti si sviluppò rapidamente e ne usufruirono tutti i ceti sociali, grazie all'economicità del procedimento. I soggetti venivano ripresi solitamente in studio, su di uno sfondo bianco, anche se numerosi furono i fotografi itineranti, che si muovevano con le fiere e nei piccoli villaggi. A causa della mortalità infantile ancora elevata, venivano prodotte anche immagini che ritraevano neonati o bambini deceduti, immortalati su piccole fotografie racchiuse all'interno di ciondoli come ultimo ricordo. Già nel 1850 si contavano più di 80 laboratori nella sola New York.

A seguito di tanta richiesta crebbe un mercato tutto nuovo di prodotti fotografici e laboratori specializzati. I laboratori fotografici divennero delle vere e proprie catene di montaggio dove ogni compito era demandato ad un singolo individuo. Erano presenti le assistenti per accogliere i clienti onde prepararli per la posa, chi si occupava della preparazione delle lastre, chi le portava al fotografo per l'esposizione e chi, di seguito, le consegnava all'incaricato per lo sviluppo, quindi al fissaggio conclusivo.

Nacque la moda dell'album fotografico, dove presero posto i ritratti di famiglia e spesso anche di famosi personaggi dell'epoca. La fotografia paesaggistica sfornò grandi quantità di cartoline raffiguranti scorci, vedute, monumenti o edifici storici da consegnare al turista in visita.
Già nel 1860 in Scozia, il laboratorio di George Washington Wilson produceva più di tremila fotografie al giorno.

La necessità di produrre lenti e apparecchiature fotografiche vide la nascita e lo sviluppo di importanti aziende fotografiche, che grazie al loro impegno e sviluppo, portarono numerose innovazioni nel campo dell'ottica e della fisica. Già alla fine del 1800 furono fondate aziende importanti come la Carl Zeiss, la Agfa, la Leica, la Ilford e la Kodak.

L'affermazione sociale della media borghesia, nei primi anni dell'800, aveva generato un forte aumento della richiesta di piccoli ritratti, dipinti ad olio, ceramiche o incisioni. Con l'avvento della fotografia un gran numero di ritrattisti, pittori, incisori, miniaturisti, si trovarono ad un bivio: abbracciare la nuova tecnica o perdere clientela. Fu per questo che molti si convertirono alla fotografia ed adottarono le tecniche delle arti maggiori anche nel nuovo procedimento chimico, nacquero così laboratori artistici che imposero uno stile estetico più ricercato, producendo ritratti di qualità più attenti al soggetto, inquadrature più ravvicinate e illuminazioni studiate. Davanti ai loro obiettivi posarono molti dei più importanti personaggi del periodo.

Davanti a questo fenomeno inarrestabile si espresse anche la chiesa (ovviamente contraria) "Voler fissare visioni fuggitive ... confina con il sacrilegio." disse, ma la sua contestazione durò ben poco.

La fotografia quindi che dapprima iniziò come procedimento di raffigurazione del paesaggio e dell'architettura, divenne strumento per ritrarre la nascente borghesia e il popolo. La diffusione sempre maggiore del mezzo fotografico portò ad uno sviluppo della sensibilità estetica, consentendone l'accesso nelle mostre e nei musei. Essa ebbe un ruolo fondamentale nello sviluppo del giornalismo e nel reportage moderno. Ben presto la fotografia divenne strumento inseparabile del viaggiatore e del giornalista, che la utilizzò per divulgare eventi e luoghi meno conosciuti. Fu utilizzata come mezzo documentale, affidabile ed inappellabile.

Sono già passati 100 anni dal primo dagherrotipo e nel 1930 sono in commercio prodotti sensibili sempre più affidabili, durevoli e definiti; le fotocamere sono sempre più compatte, trasportabili e sofisticate: ormai la fotografia è arrivata a livelli di portatilità impensabili fino ad allora.

Il mercato quindi si ingrandisce e la ricerca è sempre più accanita, Edwin Land brevetta nel 1929 una pellicola per lo sviluppo istantaneo (ricordate la Polaroid?), la kodak produce le prime pellicole a colori (1940).
La richiesta del prodotto fotografico decolla, il cinema, che anch'esso di sta sviluppando, è un gran divoratore di materiale fotosensibile, l'utilizzatore medio non si fa mancare mai la sua macchinetta fotografica tascabile per suoi week end per le cerimonie ed i compleanni. Tutto procede allegramente per tutto il 1900, ma poi accade qualcosa.

L'avvento della fotografia digitale

Nel 1972 la Texas Instruments brevettò un progetto di macchina fotografica senza pellicola, utilizzando alcuni componenti analogici. La prima vera fotografia ottenuta attraverso un processo esclusivamente elettronico fu però realizzata nel dicembre 1975 nei laboratori Kodak dal prototipo di fotocamera digitale di Steven Sasson. L'immagine in bianco e nero del viso di una assistente di laboratorio fu memorizzata su un nastro digitale alla risoluzione di 0.01 Megapixel (pensate solamente 10.000 pixel) utilizzando un CCD della Fairchild Imaging. Fu un progetto, ma le ricerche sulla fotografia digitale per uso di massa vennero rallentate dai continui miglioramenti delle fotocamere a pellicola, che proponevano modelli sempre più semplici e comodi da usare. Solo negli ultimi anni, quando le emulsioni fotografiche non permisero ulteriori miglioramenti tecnici e la tecnologia digitale raggiunse un livello qualitativo paragonabile (aiutata dalle memorie non volatili sempre più capienti), l'interesse dei consumatori si trasferì di fatto sul nuovo procedimento.

Tra i pregi delle digitali possiamo includere
- il costo di utilizzo, (praticamente nullo) e la comodità di poter mantenere e catalogare le foto su supporti ottici a costi veramente esigui.
- la facilità con cui è possibile ritoccare le foto per migliorarle, correggendo difetti dei soggetti ripresi o errori del fotografo.
- la possibilità di poter vedere e verificare lo scatto appena fatto.

Tra i difetti
- la scarsa risoluzione delle foto: la pellicola permette di effettuare anche ingrandimenti molto elevati arrivando a stampare poster senza perdere eccessivamente di qualità. La stragrande maggioranza delle digitali non offre invece un dettaglio sufficiente per questi scopi. Al momento solo le reflex più costose hanno una risoluzione paragonabile a quella della pellicola (superiore a 20 megapixel), ma, di contro, hanno una occupazione di memoria molto elevato. A differenza della pellicola quindi va pianificato in anticipo l'uso che si dovrà fare della foto scattata per decidere la giusta risoluzione.

- il basso contrasto dinamico (chiamato anche gamma dinamica) è decisamente limitato nelle digitali anche di fascia professionale. D’estate sotto il sole battente, riprendere zone in luce e zone in ombra porta a bruciare quelle in luce o sottoesporre quelle in ombra. E se i dettagli delle zone in ombra risultano comunque recuperabili (con una forte perdita di qualità) per quelli in luce non c’è nulla da fare.

- la limitata profondità di colore il problema è noto come posterizzazione e si nota prevalentemente in presenza di sfumature di colore (es. dal bianco al nero o sugli incarnati dei visi). La maggior parte delle macchine fotografiche registra infatti solo 256 livelli di colore per canale assolutamente isufficienti per ritratti o foto notturne.

- altri difetti (un po' meno rilevanti) sono dovuti alla struttura costruttiva dei sensori ccd: senza entrare nei dettagli (troverete qui un articolo che parla di questo) vi basti sapere che è necessario usare un filtro matematico sulle immagini appena uscite dal CCD chiamato filtro di Bayern. Esso introduce delle sfocature nelle immagini ed errori, in caso di rapide variazioni di colore, con la creazione di rumore molto colorato. Questo rumore è ben visibile quando si imposta sensibilità elevata (oltre i 400 ISO) e soprattutto in foto scure. Una pellicola invece produce un rumore di colore neutro (dello stesso colore del pixel che sostituisce) che è visibile, ma molto più difficile da notare.

- il costo di una macchina fotografica digitale è molto superiore a quella di una qualsiasi fotocamera analogica con le medesimee caratteristiche (le digitali di fascia media costano più delle migliori analogiche di fascia semiprofessionale). Costo che si potrebbe ammortizzare risparmiando sul costo delle pellicole e della stampa dopo qualche anno di intenso utilizzo.

Oggi ormai non vi è dispositivo elettronico che non integri una fotocamera digitale al suo interno, dal telefonino, al riproduttore MP3, alla consolle per i videogiochi, al computer portatile, alla penna, all'orologio e persino il portachiavi. Tenete presente che questi dispositivi, anche se molto usati, sono di scarsissima qualità e, nel migliore dei casi, sono in grado di poter riprodurre fotografie di dimensione pari ad una piccola cartolina.

Con le nuove tecnologie però la fotografia ha sostanzialmente perso il suo alone magico ed è diventato un infimo prodotto di consumo, forse per la facilità e per i costi irrisori, si scatta continuamente e senza senso, si accumulano gigabyte di dati inutili che mai andremo a rivedere e mai stamperemo.

Escludendo i patiti della fotografia, oggi non si fa più attenzione all'inquadratura, né al fuoco, né alla luce, non si valuta la posizione del soggetto e si accumulano smorfie, foto mosse o sfocate. Eppure bisognerebbe rivalutare questo mezzo tanto importante, così che i 200 anni di evoluzione della fotografia siano utilizzati al meglio e non solo per produrre immagini-immondizia. Un saluto.



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