Torna alla luce una preziosa stampa del grande artista Fiammingo Rubens

Giovanni Battista De Andreis, artista sperimentatore e studioso di tecniche calcografiche, analizza storia e tecnica dell’incisione derivata dal Cenacolo di Leonardo per una circostanziata e attendibile attribuzione al celebre maestro di Anversa.
del 28/10/09 -

Se ne conosceva l’esistenza da sempre, da quando si è cominciato a scrivere di Rubens come incisore e più importante diffusore di questa particolare tecnica d’arte.
“Gli amatori hanno cercata avidamente la stampa rappresentante il famoso Cenacolo di Leonardo da Vinci” così la presenta il Ferrario nel suo Le classiche stampe dal cominciamento della calcografia, del 1836. Ogni trattato ne parla, a partire dal Settecento, primo fra tutti il Mariette, assieme alle due uniche acqueforti concordemente attribuite al Maestro fiammingo: la Santa Caterina d’Alessandria e la Vecchia della candela.
La notizia: L’ultima cena, una tra le più ricercate incisioni di Rubens, è recentemente riapparsa presso un professionista Romano, il dottor Gilberto di Benedetto (psicologo e psicoterapeuta).
Certamente un omaggio importante per il celebre e sfortunato Cenacolo dipinto da Leonardo sul finire del Quattrocento per il refettorio di Santa Maria delle Grazie in Milano.
Un bulino che per le dimensioni insolite (mm 996 x 298 al bisello) è stato realizzato su due matrici congiunte: procedimento non certo consueto all’epoca, dovuto probabilmente alla difficoltà di produrre o incidere matrici in rame di dimensioni così ragguardevoli.
Tanto per l’esecuzione quanto per la storia che l’accompagna il recente rinvenimento merita più di una riflessione o di una expertise sbrigativa. La tradizione è unanime nell’attribuire l’incisione alla mano di Soutman, peintre-graveur allievo di Rubens e cresciuto alla sua bottega.
L’autenticità della stampa è garantita dalla tiratura coeva, in primo stato, impressa su carte con filigrane di Leida, in ottimo stato di conservazione. Le matrici originali sono tuttora conservate presso lo Stedekijk Prentenkabinet di Anversa.
Le scritte della legenda sottostante, chiare ma non senza enigmi, impongono qualche considerazione non inutile.
A sinistra, fatto il dovuto riferimento a Leonardo (Pinxit) si legge P. P. Rub. Delin. (disegnò). Manca del tutto l’indicazione solita dell’incisore esecutore, accanto al termine excudit . Perché?
Dopo il termine invenit, (quì sostituito da pinxit, l’autore dell’ originale) il termine delineavit indica l’autore del disegno esecutivo, in questo caso Rubens.
A rigore dobbiamo dedurre che Rubens disegnò - di questo possiamo stare certi, scrupoloso com’era - ma che nessuno eseguì (sculpsit o excudit). Com’è possibile? Le ipotesi non sono poche: l’impossibilità di menzionarlo, che l’artista non l’abbia ritenuto pertinente o necessario, che non era semplice stabilirlo o perché, semplicemente, gli incisori erano due.
Da notare che l’acquaforte, a differenza del bulino che viene inciso, in effetti viene “disegnata”. Forse in questo il senso di quel delineavit, che nel presente contesto assumerebbe un significato particolare: l’autore del disegno potrebbe coincidere con l’autore dell’acquaforte?
La Pinacoteca Repossi di Chiari (Brescia) possiede un foglio similare a questo, non coevo però e sprovvisto di filigrana dove curiosamente si legge, nella specifica della Collezione: “Il nome dell’incisore è stato sostituito da quello del disegnatore”. Una ammissione incauta che non fa che ravvivare gli interrogativi appena esposti. Curioso anche - sempre a proposito di questo lavoro e prassi generalizzata - come gli studiosi parlino indifferentemente ora di acquaforte ora di bulino, mai accennando ad una tecnica composta o comunque menzionando le due tecniche.

Un po’ di storia, intanto.
Disceso in Italia, come ogni buon nordico che intendesse temperarsi nella cultura italiana, certamente impressionato dalla Cena di Leonardo, Rubens non avrebbe esitato a copiarla. E’ quanto
è sempre stato scritto. Ipotesi suffragata, nel caso, dall’unico disegno esistente del maestro riferibile a un particolare della Cena, conservato nella collezione Devonshire a Chatsworth, con ogni probabilità databile tra il 1600 e il 1612 (J.S.Held, L.Burchard, R.A. d’Ulst).
L’interrogativo se il disegno esecutivo finale abbia invece altra provenienza viene dall’esistenza di una copia del Cenacolo vinciano - singolare per l’orizzontalità del formato e la totale assenza di spazio prospettico - dovuta ad allievi di Leonardo (Boltraffio o Marco d’Oggiono ) e conservata alla Royal Academy di Londra (ipotesi E. Moeller del 1952).
Neppure da trascurare, come ulteriore possibile spunto iconografico, una copia della Cena di imponenti dimensioni esistente già nel 1545 nell’abbazia di Tongerloo, a qualche decina di chilometri da Anversa (A. e P. Philippot nel 1967-68).
Sempre in tema di un iter creativo che non può che avvalorare l’importanza data dal Fiammingo a questo lavoro, esiste un disegno, al Gabinetto dei Disegni del Louvre, assai curioso ed eloquente. Sono rappresentate in controparte le sole figure del Cristo e dell’apostolo Simone: un particolare di un eventuale prototipo esecutivo? Il foglio si impone per una peculiarità non indifferente: se da un lato vi appaiono particolari identici all’incisione, dall’altro la posizione delle mani rispetta quella di Leonardo, soprattutto quella a sinistra nella stampa.
Se il disegno fosse derivato dall’incisione le mani non potrebbero che riprendere quelle dell’incisione e non certo tornare al modello di Leonardo. Ma la comparsa del tendaggio, così come il calice e il pane davanti a Cristo, richiamano perfettamente la stampa, per cui, soltanto considerandolo uno studio creativo intermedio (un occhio ancora a Leonardo e un altro teso a modificare) si può legittimarne l’origine non di riporto ma creativa: la mano di Rubens o di chi per lui.

Per cui, nonostante questa Cena incisa pretenda presentarsi come fedele copia nella legenda sottostante - referenza non da poco per il suo successo - l’occhio di oggi non può che coglierne lo spirito di libero d’après, ricco di vistose ablazioni. Ambiente prospettiva e oggetti sono scomparsi, ad eccezione del pane e del calice. In aggiunta, l’esuberante Rubens ha innalzato alle spalle del Cristo il vistoso panneggio piramidale appena menzionato che, mentre evidenzia la maestà del Maestro, crea un trasfigurante moto ascensionale su tutta l’orizzontalità della scena. Libertà espressive che non lasciano dubbi sulla disinvoltura toccata al capolavoro vinciano.
Creativa dissacrazione che aggiunta all’incuranza di presentarsi invertita (speculare) rispetto all’originale conferma la tensione del Fiammingo di avvalersene più per una propria rappresentazione che per diffonderne l’icona originaria. Una anomalia che è bene non trascurare perché mai attuata da Rubens per nessuna trasposizione in stampa delle sue numerose opere di pittura. Trasgressione legittimata forse dall’opportunità che, standogli sott’occhio la perfezione del suo prototipo, egli stesso abbia temuto di indebolirla rovesciandola, per non dire affidarne ad altri il rischio. Un Leonardo alla rovescia per cui, a tutto vantaggio dell’energia del foglio, che dice quanto l’Artista tenesse a questo lavoro, vivendolo come un vero e proprio furto creativo.
Non poco, per l’artista trentenne che si rivelerà il maggiore “imprenditore” della storia dell’arte: fregiarsi d’un colpo della grande tradizione rinascimentale con un trait d’union degno di un vero protagonista.

Da tali premesse, considerato il prestigio del lavoro, può essere verosimile che Rubens abbia saputo trattenersi dall’intervenire direttamente sulla matrice?
Una occhiata non superficiale convince della assoluta armonia dell’insieme: incastri perfetti di luci e ombre, un controllo del segno sempre di ammirevole perfezione: assolutamente convincente nei panneggi e di massima espressività nei volti: sempre inventato e articolato nella raffinata tornitura
delle mani dei tredici personaggi. Tutto con sintesi da maestro. Dove sarebbe improprio cercare il pathos distintivo del Rubens maturo, quei viluppi di energia che lo fanno unico. Piuttosto risulta palpabile una certa sospesa atmosfera di attesa che riporta, per equilibrio e compiutezza, a quel capolavoro giovanile di fascinante bellezza che è la tela “Romolo e Remo” della Pinacoteca Capitolina di Roma, dipinta ad Anversa nel 1616.
L’attribuzione a Pieter Claesz Soutman - così come quella più difficilmente sostenibile a Vosterman, di recente avanzata da De Liberis - merita qualche riflessione. Intanto la curiosa, non trascurabile coincidenza che un foglio importante del Soutman, La Caccia al cinghiale, risulta inciso su due matrici, esattamente come il nostro soggetto. Tecnicamente E’ sempre presente in Soutman (come ha rilevato con acutezza L. Leeber) un puntinato fine, a volte circonflesso, per accompagnare il volume dei corpi e dare rilievo agli incarnati nei passaggi di maggiore finezza; procedimento tipicamente pittorico di possibile suggerimento (o suggestione) rubensiano.
Mancano comunque prove certe, nonostante il Soutman fosse pittore e incisore, di una collaborazione ristretta tra lui e Rubens nell’ambito dell’incisione. Ciò che sposterebbe questa attribuzione ad altri incisori: Cornelis Galle il Vecchio (conosciuto da Rubens in Italia), Boetius Adamsz Bolswert, Willem Isaac Swanenburgh e qualche altro, o confermare l’incisore eccellente dell’atelier Rubens, Lucas Vosterman. Evidente, consentendo quest’ultima attribuzione, che la data verrebbe dilatata dal 1610 al 1620.

Ma in quale ottica il Maestro vedeva il rapporto con i suoi collaboratori? Una solidale vicinanza è certa, ma lo è ancor più la puntigliosa accuratezza che egli pretendeva nella fase di riproduzione di prototipi che egli stesso era solito portare alla perfezione. E’ certamente la causa dei ruvidi, avventurosi contrasti emersi con Vosterman (troppa albasìa, a detta di Rubens), unanimemente considerato il suo intagliatore di maggior talento, ma il cui rapporto con il Maestro, per quanto ci riguarda, viene costretto ai quattro anni che vanno dal 1618 alla tempestiva rottura del 1622; per riprendersi poi (miracoli dell’arte!) dopo il 1630.
Rubens era fin troppo consapevole, a sue spese, che quando non personalmente controllata la qualità del lavoro poteva slittargli di mano. Mi piace citare l’umiltà davvero commovente dell’Artista che aveva ormai conquistate tutte le corti d’Europa. “Con tutto ciò posso dire con verità, che li dissegni sono più finiti e fatti con più diligenza che le stampe, li quali dissegni io posso mostrare ad ognuno poiche li ho in mia mano”.
Come accaduto per la disgraziata serie delle illustrazioni per la vita di Ignazio di Lodola - incise a Roma dopo la sua partenza per Anversa - di una mediocrità disarmante, benché “L’unico disegno che ne conosciamo, ora al Louvre, sia di rara intelligenza e sensibilità” (D. Bodart 1977).
Quanto egli stesso lamenta in una lettera enigmatica del 23 gennaio 1619 diretta a Pieter Van Veen e riferita probabilmente al Vosterman: “Havrei ben voluto che l’intagliatore [bulinista] fosse riuscito più esperto ad imitar bene il prototypo, pur mi pare minor male di vederli fare in mia presenza per mano di un giovane ben intentionato che di gran valenthuomini secondo il loro capriccio”. Non c’è migliore conferma della preferenza di Rubens per intagliatori rispettosi delle sue direttive piuttosto che per l’estro di genialità ingovernabili.
Federico Zeri amava ripetere (l’ha scritto anche in qualche suo libro) che mentre un capolavoro sopporta qualsiasi ingrandimento, sempre migliorando, una brutta opera non può che peggiorare mano a mano che viene ingrandita.
Entrando nell’incisione, si riscontrano subito due differenti tecniche. Un potente ingrandimento permette di distinguere le diverse specie e modi di interventi e, ciò che più importa, i “tempi di esecuzione”. Intanto la traccia, cioè il disegno che contorna forme e figure, risulta incisa all’acquaforte: un segno morbido e sensibile, robusto e deciso. Tutte le figure e i profili dei volti appaiono tracciati da questa mano: una varietà e intensità d’espressioni non certo da copista! Il secondo stadio risulta eseguito al bulino: una mano assai abile ha dato corpo alle figure con un
intaglio secco e preciso. Di rilevante interesse i punti più delicati degli incarnati: la mani soprattutto, trattate con interventi di finissimi punteggiati, vibrazioni infinitesime per imitare una resa di materia pittorica.
Ecco al terzo livello riapparire l’acquaforte. Com’è possibile, trattandosi sempre di acquaforte, che le due fasi non siano state eseguite contemporaneamente?
E’ questa la scoperta più affascinante. Scrutando l’energica tratteggiatura delle massime ombre (specie tra i capelli degli apostoli e ovunque appaiano rinforzi consistenti) si osserva che le linee di di tratteggio procedono a scatti, come a balzelli. La mano dell’incisore sa riconoscere tali scatti: il caratteristico salto della punta d’acciaio (puntasecca) ogniqualvolta interseca i solchi del bulino o dell’acquaforte sottostante. La sicurezza con cui si riesce qui a padroneggiare la direzione del segno, per quanto gli incavi possano impedirlo, rivela l’artiglio del Maestro. Per esperienza so quanto in un intervento del genere risulta difficoltoso, anche alla mano più esperta, mantenere la direzione voluta.
Se un intervento all’acquaforte - dove si disegna, è l’acido a incidere - può risolversi in tempi rapidi, la lavorazione a bulino comporta, oltre una ammirevole pazienza, tempi notevoli: un rapporto da giornate a mesi.
Questa considerazione conferma che un disegnatore prodigioso come Rubens era in grado di intervenire in tempi assai rapidi all’acquaforte, lasciando al paziente lavoro del bulinista tutto il rimanente, purché sempre sotto controllo. Un procedimento identico a quello di molti suoi disegni. Nelle stupenda Testa a sanguigna di bambino qui riprodotta egli traccia appunto a sanguigna le parti più luminose e delicate, lasciano poi agli interventi energici del carboncino tutte le parti rinforzate in ombra. Nell’incisione la sanguigna corrisponde al bulino e il nero del carbone all’acquaforte.
La lettera sopra menzionata evidenzia che l’Artista considerasse l’incisione come emanazione della sua propria creatività. Il suo occhio straordinario non poteva che fargli ricercare nell’opera stampata quelle stesse caratteristiche di verità ed energia che ricercava nell’opera dipinta.
Una energia che egli riusciva a suscitare, come nel caso di questa incisione, avocando a sé tanto la parte iniziale quanto quella finale del lavoro, con la stessa fluidità con cui riusciva nei dipinti a interscambiarsi con i suoi valorosi aiuti. Una bottega, la sua, che ha saputo gestire, oltre uno stuolo di incisori di considerevole statura, artisti della levatura di Van Dyck o Jordaens: il più importante esempio di gestione di creazione artistica di ogni tempo.

Eccessivo pretendere che per questa Cena il Maestro abbia messo mano anche al bulino, nonostante la sua pratica accertata dello strumento e la definizione di “Pittore del bulino” attribuitagli da Mariette.
Per mio conto è sufficiente, dato il valore del suo doppio intervento in acquaforte, la certezza che egli ha tenuto sotto controllo l’intera lavorazione, con un’attenzione specifica all’intaglio. Per il quale non credo ragionevole, in ultima analisi, spostarsi da Soutman; non fosse che per le sue documentate capacità e per rispetto di quella tradizione che concordemente lo richiama. Una attribuzione diversa suonerebbe meno giustificata, come anche quella a Vosterman, avanzata da De Liberis, mi sembra posticipi troppo una esecuzione che io sento collocarsi nel primo decennio del Seicento.
Per cui, come per gran parte del suo stile di produzione pittorica, è possibile a pieno titolo ascrivere al nome di Rubens la piena paternità di questo stupendo e insolito foglio. Una qualità e una rarità di cui non è certo agevole ipotizzare un possibile valore di mercato. Nella misura in cui è difficile precisare quale valore si intenda e, soprattutto, a quale mercato ci si voglia riferire.
Come artista e come appassionato studioso di questa meravigliosa arte su carta non posso che concludere: allo stesso modo che un appassionato di Rubens ricerca una sua opera autentica di pittura si può parimenti restare affascinati da questa originalissima “Ultima cena” del grande maestro di Anversa.





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