Teoria della contaminazione

Intervista con Alberto Apostoli.
del 03/10/07 -

D: Architetto o designer?
R: Trovo restrittivo definire una professione
che fa del progetto, inteso in senso lato, il
suo scopo. Serve un’architettura e un design
in ogni progetto (di grande o piccola scala)
così come fa parte del progetto saperlo
descrivere e promuoverlo senza intellettualismi,
saper arricchirlo di valore poetico e di
comunicazione, saper porre attenzione al
mercato e alle aspettative emozionali popolari,
sapere infine coordinare tutto questo
con sapienza e padronanza. Mi sapete dire
se tutto questo lo può fare l’architetto, il designer,
l’ingegnere o altro?
Io non credo che oggi sia così opportuno
incasellare tutto. Direi serva piuttosto una
grande capacità multidisciplinare, un saper
fare alchimie e coordinamento. Preferisco
essere un “chimico”, uno che contamina e
media diverse visioni del progetto anche
se ovviamente il tutto nasce spesso da uno
schizzo o un segno di matita.
D: Come affronti temi spesso diametralmente
diversi?
R: E’ eccitante e straordinario rimettersi
in discussione. Per me è vita e sorgente
d’ispirazione. Inizio subito a pensarci, ci
penso più o meno direttamente per giorni
traendo ispirazione da tutto. Ovviamente la
fase di ricerca è fondamentale, per capire
cosa non fare e che atteggiamento avere.
Le esperienze fatte in ambiti diversi sono poi
una straordinaria fonte di ispirazione. Spesso
ho pensato al retail in occasione di edifici
residenziali o al design in occasione di
piani urbanistici attuativi.
Provo la stessa gioia che un bambino pro
va nello scartare un gioco nuovo; non ho
mai paura che mi esploda in mano, ma solo
di imparare in fretta le essenziali regole e
potenzialità.
D: Non è forse un pericolo spaziare eccessivamente?
Non si rischia d’essere poco
attenti alle problematiche specifiche di ogni
progettazione?
R: Non credo! Ovviamente per spaziare
occorre metodo e capacità di cambiare,
di rimettersi continuamente in discussione;
ma è come se ad un direttore d’orchestra
si chiedesse di suonare un solo autore. O
ad un attore, per esempio Robert De Niro,
di interpretare lo stesso genere o ruolo. Ovviamente
è evidente che qualcosa rimane
di simile tra progetto e progetto e che forse
qualcosa non viene considerato a sufficienza.
Ma la differenza progettuale è di gran
lunga superiore ai lati negativi quasi sempre.
D: Riesci a sintetizzare la tua teoria progettuale,
magari in forma d’assioma?
R: Non si può progettare a partire dallo
specifico tema, ma serve vedere il progetto
come un’opportunità per interpretare
diversamente a partire da un segnale, una
frase, un desiderio ecc. Il massimo sarebbe
scardinare alla base ciò che è scontato…..
questo però non è sempre possibile.
Il contrasto è sempre un plus del progetto,
non deve essere eccessivo ed esagerato ma
le idee originali nascono da pensieri apparentemente
distanti. La teoria del pensiero
laterale insegna molto a noi progettisti.
D: Cosa fa capire che c’è la tua mano
su un progetto? Hai qualche “segno” distintivo
o elemento che si può descrivere come
il tuo “marchio di fabbrica”?
R: Forse è la forza e l’energia progettuale.
Non mi piacciono le mezze misure
e i progetti eccessivamente razionali, minimali
in sordina. La forza del progetto sca
turisce dall’uso delle curve e delle forme decise.
C’è sempre anche un gran lavoro sulle
piante a cui affidare la logica e la razionalità.
Il progetto reale nasce invece dal passaggio
al tridimensionale, che uso non come
strumento sterile ma funzionale allo sviluppo
dell’idea nella sua essenza. Un progetto
sempre in divenire fino all’ultimo, fino anche
alla fase di foto-ritocco, in cui ad effetti
grafici/cromatici e fotografici sono abbinate
scelte relative ai materiali, alla luce ecc.
D: Chi trovi più vicino al tuo modo di
pensare e di approcciare il tuo lavoro?
R: Mi piace il lavoro di squadra. Anche
se da capitano. Penso all’allenatore di
calcio, al maestro d’arte, al manager creativo,
alla moda. Vari modi di affrontare il
lavoro ma sempre con un’attenzione agli
aspetti non solo creativi formali ma anche
alle possibilità di crescita professionale, al
livello di “esportabilità” delle logiche progettuali…
insomma un approccio a 360°.
D: Architetto o designer preferiti?
R: Non so! Forse Armani costituisce
da sempre il mio modello di riferimento
nel modo di lavorare. Un atteggiamento
attento alla creatività quanto alla gestione
del progetto, del gruppo di lavoro e dell’intraprendenza
organizzativa. Chi si ripete
in continuazione non mi entusiasma.
Chi fissa i propri canoni estetici indefinitivamente
non lo capisco. Amo chi
fa un percorso. Per il resto non ho niente
di fisso professionalmente. I miei punti
fermi sono nella vita e nella religione.
D: Progettare vuol dire?
R: E’ un atto d’amore verso gli altri, tutti
gli altri. Vuol dire, per me, trovare il progetto
che soddisfa tutti e che dia ai diversi soggetti,
categorie, e professionalità soddisfazione
nel vedere, usare e vivere quello che tu hai
pensato. Progettare è mediare senza rinunciare
a se stessi. Progettare per se è
sbagliato, perché sono gli altri che vivono il
tuo progetto.
Occorre umiltà e rispetto…ma attenzione
agli stupidi che rinunciano a tutto per le regole.
Le regole sono per chi non sa capire
da se cosa è bene o male. Ed in Italia spesso
progettare significa combattere anche
le invidie, le stupidità, la tradizione intesa
come limite e non come risorsa.
Altra importante questione è il progettare inteso
come “per” qualcuno, ovvero con attenzione
alle aspettative, ai desideri, all’immaginario
o all’inclinazione personale del tuo
o dei tuoi clienti finali. E’ infatti la soddisfazione
dell’utilizzatore finale il mio obiettivo e
per me progettare vuol dire soddisfare Lui.
D: Mi sai dire il progetto o l’oggetto
preferito?
R: Da sempre considero il Guggenheim
di Wright un punto fermo. Per forza progettuale,
per perfezione delle forme esterne e
scenografiche dell’interno. Un tratto unico,
un’idea istintiva e decisa….sintetizzabile in
uno schizzo. Un progetto di rottura rispetto
ai volumi rettangolari della città; un progetto
che si ricorda senza essere eccessivo e fuori
dal sentire comune. Una scultura, ma anche
un grande esercizio distributivo e volumetrico.
Perfetto!
D: Cosa ti piacerebbe progettare in futuro?
Un sogno nel cassetto?
R: Una chiesa. Sicuramente sarebbe
per me importante personalmente e professionalmente.
C’è tutto in un luogo di culto:
architettura, emozione, decorazione, materiali,
luce ecc. Tutto concorre al risultato fi
nale e le possibilità creative sono immense.
Se escludiamo gli ultimi 4 secoli…per quasi
1000 anni nulla ha così ispirato l’uomo
occidentale, nulla ha accompagnato la vita
privata, religiosa, affettiva e sociale come
questi luoghi meravigliosi!
D: Come vedi il futuro della tua professione
e la creatività in genere? Riesci ad
orientarti nel panorama mondiale o non hai
punti di riferimento?
R: E’ difficile esprimersi in questi temi.
Io personalmente ho appena aperto uno
studio in Cina (Canton) già ora attivo e operativo
su diversi fronti. La creatività Italiana è
una carta importante, ma le nostre piccole
realtà faticano ad imporsi.
Il fatto che siamo certificati ISO 9001 finalmente
serve e l’aver puntato non solo sulla
creatività ma anche sul sistema organizzativo
e sulla non specializzazione è un gran
vantaggio.
La capacità multidisciplinare è la chiave di
volta: oggi fare un buon progetto non è più
sufficiente. Ci sono centinaia di buoni architetti
e designer ma la differenza è anche
commerciale e nel modo umile di affrontare
il mercato. Purtroppo siamo convinti che il
mondo giri intorno a noi italiani e che tutti
facciano come noi. In realtà noi abbiamo
molto da fare per creare garanzie professionali
internazionali e dimostrare di non essere
solo creativi e fantasiosi.



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