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Caso maltempo: Noi stiamo con Quintana - E con la neve. E contro i miopi sterilizzatori del ciclismo

Visto che la gastronomia va di moda, facciamo una metafora gastronomica. Abbiamo un ristorante di successo che offre un menu ricco e variegato, pieno di sfizierie e particolari gustosi. Poi, forse perché stufi del troppo successo di questa nostra formula, da un certo momento in avanti decidiamo di sfoltire il menu. Togli questo primo, togli quel secondo, abolisci qualche contorno, ci gioviamo comunque del gran nome che ci siamo fatti in passato (quando iniziammo gestendo una semplice trattoria) e continuiamo a stare a galla...
del 20/03/15 -

A un certo punto, affascinati da alcune filosofie dell'ultim'ora, arbitrariamente diamo un'ulteriore sfoltita al menu. Il vino fa troppo male, lo eliminiamo e serviamo solo bevande analcoliche; il sale non aiuta la digestione, allora forniamo solo cibi insipidi; il lievito è nemico del futuro, offriamo pane azzimo. Stranamente, notiamo un calo vistoso nella nostra clientela.
Arrivati a questo punto, chiunque - dotato di un minimo buon senso - opterebbe per riarricchire il menu per provare a riavvicinare i vecchi avventori; noi invece, chissà perché, ce ne freghiamo, e compiamo il passo decisivo: nel nostro ristorante si potrà mangiare solo brodo vegetale o pasta in bianco, e bere acqua distillata. Dopodiché abbiamo pure il coraggio di stupirci vedendo che la gente frequenta l'osteria sgarrupata a 100 metri da noi, e snobba il nostro ultrafighissimo ristorante fusion-lupmann-new age.
Forse non sarebbe stato necessario spingere la metafora così avanti, del resto sin dall'inizio (anzi, sin dal titolo...) risultava già abbastanza chiaro dove volessimo andare a parare. Ma capirete che è troppo forte il timore che un appassionato di ciclismo, trovandosi di fronte alla proposta di bloccare tutte le gare con una temperatura ambientale inferiore ai 3°C, si possa sentire più o meno come l'avventore che trova sul menu solo pasta in bianco e acqua distillata. La paura è che quell'appassionato finisca col dire: "Ma per quale ragione dovrei continuare a perdere tempo appresso a questa roba?".

Uno sport sempre più appiattito.
Entriamo nel dettaglio. Il ciclismo vive un appiattimento spaventoso, è inutile negarselo. Laddove un tempo (neanche troppo lontano: parliamo anche di 20 anni fa) le gare erano generalmente battagliate, i big non aspettavano gli ultimi chilometri per affrontarsi a viso aperto, il pubblico a bordo strada era numeroso e caloroso, oggi le distanze rispetto a quel modo di intendere questo sport si fanno sempre più evidenti.
La standardizzazione dei modelli ciclistici è palese, l'approccio alle gare diventa sempre più monocorde, l'interpretazione sparagnina della stagione da parte di molti corridori fa letteralmente a pugni con l'idea di un prodotto vincente, vendibile, di successo.
In una situazione così sclerotizzata, l'ultima cosa di cui avremmo bisogno sarebbe un ulteriore passo verso l'appiattimento. Qualcuno che abbia anche un minimo di visione prospettica è davvero convinto che eliminare ancora qualche variabile da un ciclismo già oggi abbondantemente sterilizzato sia una tattica così geniale?

La "piaga" del maltempo.
Scriviamo queste righe perché stimolati dall'ultima crociata che il ciclismo s'è inventato: quella contro il maltempo. L'UCI (che Giove Pluvio l'abbia in gloria!) sta valutando l'istituzione di un "Protocollo per le condizioni climatiche estreme". Un protocollo che inviti gli organizzatori a neutralizzare le gare in condizioni climatiche estreme? Bella forza, ci voleva l'UCI per dircelo?
Il problema è nell'interpretazione che si darà di quell'aggettivo, di quell'"estreme". Perché l'Unione Ciclistica Internazionale si sta muovendo sulla scorta di una proposta venuta dalla neonata Associazione dei Corridori Professionisti Nordamericani (ANAPRC), e tale proposta parla esattamente di quanto accennavamo più su: bloccare le corse che si svolgessero con una temperatura non superiore a 3°C, con pioggia o nevischio (ovviamente in caso di neve tutti a casa, ci mancherebbe); idem per temperature superiori ai 40°C.
Siamo alla fase embrionale di questo confronto, tutte le modalità devono essere messe nero su bianco (tipo: quale temperatura vale, quella alla partenza o all'arrivo? E se si abbassa strada facendo, ci fermiamo in un autogrill? O in questi casi ci dobbiamo fidare dei siti meteoterroristici e abbassare le serrande prima del tempo?). Ma c'è già abbastanza materiale per preoccuparsi seriamente.

Il mood del gruppo.
Purtroppo in gruppo l'aria che tira è pessima, da questo punto di vista. Una serie di accadimenti recenti (dalla Sanremo 2013 all'episodio dello Stelvio 2014 all'ultimissimo "caso Terminillo") hanno arroventato il clima, e soffiano sul fuoco alcuni corridori che su questo tema si sono conquistati sul campo la fama di cattivi maestri, da Fabian Cancellara a Filippo Pozzato. Ora, che Cancellara e Pozzato, corridori con la pancia ormai più che piena e quindi poco avvezzi a strapazzarsi più di tanto, possano ululare appena fa un po' di freddo in più, possiamo anche capirlo. Ma che siano le istituzioni del ciclismo a dare cittadinanza a visioni completamente fuori dalla realtà, è un problema che ci causa qualche cattivo pensiero in più.
Dare una sponda regolamentare a un ambito così facilmente esposto agli umori del momento e al terrorismo psicologico interessato di qualcuno, sarebbe un errore esiziale per il ciclismo. Gli sceriffi del gruppo non aspettano altro. Una volta posto un paletto di questa dimensione, non ci vorrà poi molto a convincersi (e convincere i più deboli) che il nevischio sia neve, ad esempio, e ad annullare una tappa. Magari la tappa più attesa (o per qualcuno la più indigesta) di un grande giro.
Quanti tifosi si sobbarcheranno un viaggio per andare sulle Dolomiti ad assistere al passaggio del Giro, sapendo che con questi chiari di luna anche una pioggia più insistente potrebbe provocare qualche taglio di montagne? Pensiamoci bene prima di fare vaccate.

La questione della sicurezza.
Sgomberiamo il campo dal dubbio che in ballo ci sia una questione di sicurezza. Siamo i primi a invocare maggiore sicurezza per i corridori, ma la nostra linea, da anni, è che tale ricerca debba andare nella direzione di maggiori protezioni sui ciclisti, non nella neutralizzazione di tutte le specificità delle varie corse. Una volta aboliti i passi alpini nel freddo o nel gelo, il prossimo obiettivo quale sarà? Asfaltare il pavé della Roubaix?
Siamo altresì convinti che in condizioni estreme non si debba gareggiare, ma questo - guarda un po' - già succede: è stata o no annullata la tappa di Gavia e Stelvio del Giro 2013? Quante corse saltano ogni anno (anche gare in linea, i cui organizzatori quindi vedono sfumare tutto l'impegno di una stagione) per motivi climatici? Già succede, già succede!
Ma se qualcuno ci vuole suggerire che l'arrivo del Terminillo domenica scorsa alla Tirreno abbia configurato una situazione di gara estrema, beh, non ci siamo proprio. Che qualche corridore si lamenti per 3 km sotto la neve (in salita, a velocità ridotte) ci fa solo compiangerlo. Un corridore che non capisce che il pubblico (sì, caro Pippo, si pedala anche per il pubblico... no, aspetta, scusa: si pedala SOPRATTUTTO per il pubblico!!!) ha bisogno anche di queste sfide più estreme, ogni tanto, e che il ciclismo esce arricchito da una giornata come quella del Terminillo, non ha capito nulla di quello che sta facendo.
Per favorire la sicurezza (e la salute di chi va in bici) si può intervenire in mille modi: a livello di materiali, di indumenti, di supporto in gara da parte delle ammiraglie. Invece qui si va nella direzione più sbagliata, ovvero la neutralizzazione delle corse.

Le capacità di ognuno e il doping.
Chi stabilisce che la maggiore resistenza al freddo di un Nairo Quintana rispetto a un Vincenzo Nibali non debba essere premiata? Il ciclismo, da che mondo è mondo, è guardacaso proprio uno sport di resistenza. Vogliamo limitare l'incidenza di questo aspetto, quindi? Ma abbiamo valutato le conseguenze di ciò?
Un ciclismo più appiattito e in cui il valore naturale di ogni corridore sia messo meno in condizione di emergere, è un ciclismo più dopato. Non c'è discussione su questo punto, è proprio un'equazione facilmente comprensibile. Se io tolgo specificità alle corse e possibilità di espressione ai corridori, tendo a mettere tutti sullo stesso piano. E quando si è tutti sullo stesso piano, il doping ha fatalmente maggiore incidenza. Estremizzando, se faccio correre un GP di Formula 1 su un rettilineo lunghissimo, senza una curva, emergerà di più la capacità di guida o la potenza dell'auto? E nell'ambito del ciclismo, cosa è più influenzabile dal doping, "la capacità di guida" o "la potenza dell'auto"?
Le mille variabili di una gara (quelle che richiedono sagacia tattica, proprietà del mezzo, fantasia, spirito di adattamento, propensioni naturali, specificità tecniche) equivalgono alla "capacità di guida". Mettere i corridori su un percorso sterilizzato da ogni imprevedibilità, permette di dare sfogo unicamente alla "potenza dell'auto". Il ciclismo dei Froome, in pratica, sia detto con tutto il rispetto. Un ciclismo celodurista in cui conta solo la prestazione pura, quella che può essere allenata (stavamo per scrivere "alienata") oltre ogni umana misura, e in cui il "cuore" conta meno, enormemente meno.

Che fare a questo punto.
Preso atto (da decenni, diremmo) che la follia in seno alle entità che gestiscono il ciclismo è un elemento ormai ineliminabile, non rimane che la resistenza. Ci piacerebbe che in tanti si rendessero conto della gravità di ciò che bolle in pentola. Ci piacerebbe che altri organi di informazione ciclistica capissero e sposassero questa causa. Ci piacerebbe che la Gazzetta dello Sport, direttamente chiamata in causa nella figura di RCS Sport (Mauro Vegni), colpevole di aver obbligato il gruppo a correre sotto la neve, prendesse una posizione netta contro queste esasperazioni ormai stucchevoli.
Certo, portare una corsa in marzo a 1800 metri d'altitudine equivale un po' a cercarsi rogne, visto che la neve, di questa stagione, è sempre in agguato su certe vette. Anche da parte degli organizzatori sarà il caso di evitare nel futuro prossimo "eccessi di ottimismo", chiamiamoli così. Quindi, memorandum anche per Vegni: il Giro ha la sua specificità sullo Stelvio e ci deve passare con una certa regolarità, maltempo o no; la Tirreno può invece essere disegnata benissimo anche senza Terminillo.
Andiamo incontro al buon senso, tutti quanti; non recediamo di un metro dal buon senso, tutti quanti. E chi ha la lacrima facile ogni volta che sente uno spiffero di freddo, ha due possibilità: coprirsi di più; o ripensare a quando, da giovane, d'inverno si allenava nel gelo senza piangere (certo, questo sarà più difficile per chi coi soldi del ciclismo ha vinto anche una residenza stabile alle Canarie o in Costa Azzurra).

Marco Grassi



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