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Valentino Mazzola, le maniche arrotolate del Capitano

Capitan Valentino e il Toro
del 19/01/13 -

Prima di chiudere questa carrellata dedicando il capitolo finale ai tifosi, il vero cuore pulsante del Toro in questi cento anni, non potevamo che dedicare l’ultimo ritratto tra i giocatori all’uomo simbolo del centenario granata: Valentino Mazzola, il Capitano per eccellenza, quello con la c maiuscola. Che si sia trattato di uno dei giocatori più forti di ogni epoca non ci sono dubbi, basta andare a rileggere quello che è stato scritto, fra i tanti, da due maestri del giornalismo come Gianni Brera e Gualtiero Zanetti, che hanno masticato calcio per oltre mezzo secolo.

Classe 1919, nato a Cassano d’Adda nel milanese, Valentino Mazzola approdò in serie A con il Venezia nel 1939. Mezzala dalle straordinarie doti tecniche, ma in possesso anche di polmoni, generosità, sagacia tattica e soprattutto di una leadership naturale, arriva al Torino nell’estate del 1943. In verità, il suo acquisto venne perfezionato dal presidente Novo già negli spogliatoi subito dopo un Venezia-Toro finito 3-1 nell’aprile di quell’anno, che aveva visto il capitano dei lagunari guidare la riscossa che aveva letteralmente annichilito i granata. Anche la Juve era sulle sue tracce, ma Ferruccio Novo bruciò la concorrenza con un colpo da maestro (e un assegno di alcuni milioni, una cifrona per l’epoca), portandolo in granata insieme a Ezio Loik, che con lui formava la coppia di centrocampo del Venezia. Nacque così il Grande Torino, che l’anno seguente conquistò il primo scudetto della sua lunghissima striscia, proprio grazie ad un gol di Mazzola a Bari nei minuti finali dell’ultima partita, che consentì di tenere a distanza il Livorno.

La guerra bloccò il volo dei granata, ma la squadra che si ripresentò nel 1945 ai nastri di partenza del torneo era ancora più forte e all’altezza del suo capitano e trascinatore.

Nacque così la leggenda di un gruppo di uomini straordinari, guidati da un Mazzola che, quando la partita languiva, nel momento in cui si rimboccava le maniche e il trombettiere Bolmida suonava la carica in tribuna, dava il via ad un quarto d’ora in grado di stritolare ogni avversario. Il Filadelfia divenne il fortino inespugnabile di quel Toro, che in casa dava tre o quattro gol a tutti, a volte anche di più, rimontando anche partite in cui era sotto 3-0 (come avvenne contro la Lazio). Giocatore dalla classe innata, goleador ma anche uomo assist, fortissimo anche nel gioco aereo, nonostante una statura normale, Capitan Valentino ha vinto cinque scudetti e segnato 102 reti in 175 presenze con la maglia granata.

Ma i numeri, per quanto importanti, sono freddi e non rendono l’idea di quello che Mazzola è stato per il Toro e per il calcio italiano. Ha riscaldato un’Italia che, assieme a lui e ai suoi compagni, a Bartali e Coppi, vedeva un simbolo del riscatto in un dopoguerra durissimo, negli anni della ricostruzione. Forse è per questo che gli altri giocatori del Torino erano tutti d’accordo affinché il capitano prendesse il doppio degli altri. Lo dicevano loro stessi al presidente Novo, quando si trattava di andare a discutere gli ingaggi, all’inizio della stagione. In un’Italia ancora bigotta, Mazzola come il suo grande amico Fausto Coppi (qualche anno più tardi) ebbe problemi perché aveva lasciato la moglie per andare con un’altra donna.

Se ne dissero e scrissero di tutti i colori, anche se i figli Sandro (che prima delle partite si divertiva a palleggiare in mezzo al campo col padre) e Ferruccio (chiamato così in onore di Novo) ebbero a soffrire per questa situazione. Qualche giornalista dell’epoca sostenne che nel 1949, se non ci fosse stata la tragedia di Superga, Mazzola sarebbe passato all’Inter a fine campionato. Non sapremo mai come sarebbe andata a finire, sicuramente il Toro avrebbe fatto di tutto e anche di più per trattenerlo, visto il fortissimo legame tra il presidente Novo e il suo capitano, ma quel pomeriggio di maggio pose fine a tutto. Ma non al mito di un campione (e di una squadra) da leggenda.



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