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MOBBING - Necessaria la presenza dell'elemento intenzionale

Il mobbing designa un complesso fenomeno consistente in una serie di atti vessatori, protratti nel tempo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all'obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo.
del 11/03/14 -

Il mobbing designa un complesso fenomeno consistente in una serie di atti vessatori, protratti nel tempo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all'obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo.

A ribadire il principio è la Corte di Cassazione, nella sentenza del settembre 2013.

Nel caso prospettato, un lavoratore ricorreva al Giudice del lavoro lamentando di aver subìto, nell'ambiente di lavoro, numerose condotte mobbizzanti comprensive di un prolungato demansionamento.
Chiedeva quindi la riassegnazione a mansioni equivalenti a quelle da ultimo svolte, oltre al risarcimento del danno «biologico, morale ed esistenziale, nonché, per quanto attiene al solo demansionamento, di quello patrimoniale per la lesione della professionalità».

La Corte di Appello di Firenze confermava la pronuncia di primo grado nella parte in cui, pur accertando la sussistenza di un demansionamento, aveva escluso l'esistenza del mobbing e di un danno non patrimoniale subìto dal lavoratore, riformandola invece nella parte in cui aveva condannato il datore di lavoro al risarcimento del danno patrimoniale derivante dal suddetto demansionamento. Contro questa pronuncia, per quel che qui interessa, il lavoratore ricorreva alla Corte di Cassazione articolando vari motivi.
Con un primo motivo il ricorrente lamentava la violazione e falsa applicazione dell'art. 2087 c.c., nella parte in cui la pronuncia impugnata aveva ritenuto necessario - per la configurazione del mobbing - il c.d. animus nocendi, requisito che a suo avviso non trovava riscontro nella giurisprudenza di legittimità. Lo stesso lavoratore lamentava poi come i Giudici di merito, nonostante l'accertamento di una grave dequalificazione professionale, non avessero operato la necessaria valutazione complessiva della fattispecie a loro sottoposta, obliterando anche le risultanze della CTU disposta dal Giudice di primo grado (che evidenziava nel lavoratore difficoltà relazionali ed ostilità originate nell'ambiente di lavoro). Motivi che, ad avviso della Corte, non sono fondati.
Afferma infatti la Cassazione che il nostro ordinamento non prevede «una definizione nei termini indicati di condotte rappresentative del fenomeno mobbing, come un fatto pertanto tipico a cui connettere conseguenze giuridiche anch'esse previste in maniera tipizzata», ragion per cui il fenomeno viene civilisticamente ricondotto alla violazione da parte del datore di lavoro della disciplina di cui all'art. 2087 c.c. (che regola il c.d. obbligo di sicurezza).

Affermando il principio esposto in massima, la Corte ribadisce poi come - ai fini della stessa configurabilità del mobbing - debbano ricorrere congiuntamente quattro elementi:


  • 1) una serie di comportamenti di carattere persecutorio (anche leciti, se individualmente considerati) che, con intento vessatorio, siano stati compiuti dal datore di lavoro - o da suoi dipendenti - in modo sistematico e prolungato;

  • 2) l'evento lesivo della salute del dipendente;

  • 3) il nesso eziologico tra tali condotte ed il pregiudizio patito dalla vittima;

  • 4) un intento persecutorio da parte del datore di lavoro, unificante tutti i comportamenti lesivi.



La Cassazione chiarisce tuttavia come, quand'anche le diverse condotte denunciate dal lavoratore non siano riconducibili ad un unicum e non siano cumulativamente idonee a destabilizzarne l'equilibrio psico-fisico, ciò non esclude che esse possano comunque risultare individualmente lesive di suoi diritti fondamentali con l'effetto che, se ascrivibili a responsabilità del datore di lavoro, quest'ultimo può essere chiamato a risponderne nei limiti dei danni a lui imputabili.
La CTU non può accertare la sussistenza di condotte vessatorie. In questo contesto, pienamente corretto risultava l'operato della Corte di Appello che aveva anche escluso le risultanze della CTU disposta dal Tribunale, alla quale «non competeva la valutazione dei riflessi soggettivi dei fatti operata, né poteva assumere rilievo la qualificazione giuridica che poteva ravvisarsi nelle indicazioni del CTU medesimo.
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