Gianni Profita interviene sulla dibattuta questione delle ''coproduzioni''

Le majors usano con molta efficacia le coproduzioni in chiave di pianificazione finanziaria e non di collaborazione artistica.
del 28/01/08 -

Gianni Profita, in marigine ai lavori della Conferenza di Jersey City, ha sintetizzato lo stato dell’arte della questione.
Un “trattato bilaterale di coproduzione” è stipulato quando due paesi (o più di due nel caso di un trattato multilaterale) si associano per produrre e finanziare insieme un progetto cinematografico. Ha una natura “legale” che richiede una serie di requisiti predeterminati dalle Autorità dei vari Paesi al fine di sostenere la propria specificità culturale nazionale.
Questo tipo di trattati non interessa gli Stati Uniti per diversi motivi. In primo luogo perché questi accordi sono stipulati per offrire incentivi le cui “dimensioni” non sono in linea con i budget cinematografici –di gran lunga più rilevanti- prevalenti ad Hollywood. Per altro verso le condizioni poste dai paesi per poter stipulare tali Convenzioni sono piuttosto onerose per la tradizionale libertà espressiva e gestionale delle major americane. Ad esempio non sarebbe praticabile per le produzioni hollywodiane girare i film obbligatoriamente in francese e con una quota rilevante di “filmakers” francesi come richiedono spesso le regole della Francia per poter accedere a determinate agevolazioni previste per i film coprodotti con un produttore francese.
Vi è una differenza fondamentale tra le “coproduzioni” realizzate nell’ambito dei Trattati e le semplici coproduzioni finanziarie tra operatori provenienti da Paesi diversi: questi accordi economici non contano su sostegni pubblici, ma non hanno alcun vincolo normativo alla stregua di qualsiasi altra attività economica che nell’economia globalizzata vede come partner imprenditori appartenenti a Nazioni diverse.
Un’altra ragione che non incoraggia l’adesione degli USA alle coproduzioni legali è l’obbligo di “condividere” la proprietà del film, condizione che non si sposa con la tradizione statunitense delle produzioni finanziate da un unico soggetto, anche se non sempre ripagano il denaro investito dal finanziatore. I produttori americani vogliono sempre avere il pieno controllo del prodotto per sfruttarne appieno le potenzialità e mal sopportano logiche di negoziazione internazionali che, pur potendo comportare aiuti pubblici, spesso finirebbero per compensarne in negativo i benefici per la farraginosità dei meccanismi e dei “paletti” imposti dagli Stati.
Questo non significa che gli operatori americani non vadano a girare all’estero. In generale ciò accade per esigenze legate alle sceneggiature e per ragioni di efficienza produttiva. Alcune scene di “Mission impossibile …” sono state girate in Malesia a Kuala Lumpur per il contributo di spettacolarità della location delle Petronas Towers e allo stesso tempo per il basso costo delle risorse locali (anche se spesso occorre fare i conti con l’onerosa necessità di trasferirvi per il tempo delle riprese risorse professionali specializzate non reperibili in loco). “The Passion” di Mel Gibson è stato girato a Matera quasi esclusivamente per l’unicità della location: i “Sassi” si prestavano perfettamente per ricostruire la Gerusalemme di duemila anni fa.
Altre ragioni sono legate, appunto, alla effettiva competitività delle riprese effettuate all’estero. In ogni caso, comunque, si tratta sempre di scelte produttive che non comportano la perdita dell’assoluta proprietà della pellicola da parte della Major.
Il modello di coproduzione europeo trova difficoltà ad entrare nella dinamica produttiva degli Stati Uniti che non vogliono piegare o adattare i loro progetti alle esigenze “burocratiche” richieste dalle coproduzioni legali. In altre parole i produttori americani pensano che sia più remunerativo fare film liberamente che ottenere magari sostanziosi contributi governativi ma al prezzo di compromessi sulle scelte produttive.
Nel tempo, però, il meccanismo delle agevolazioni fiscali esistente in molti Paesi ha convinto anche gli Stati Uniti –a partire dai produttori indipendenti- a produrre all’estero nel rispetto formale dei requisiti richiesti per ottenere in cambio notevoli benefici fiscali. Molti degli esterni di Brokeback Mountain e della saga del Signore degli Anelli sono stati girati rispettivamente in Canada e in Nuova Zelanda certamente perché erano state individuate delle location molto adeguate. Ma anche perché sia il Canada che la Nuova Zelanda, pensando in tal modo di aumentare il volume produttivo e le spese effettuate nei propri territori (con innegabili ricadute positive sull’occupazione, sull’economia e conseguentemente sull’erario), hanno offerto benefici fiscali di grande interesse che hanno attratto le produzioni hollywoodiane.
Negli ultimi anni numerose grandi produzioni americane hanno “scoperto” ed utilizzato i tax reliefs inglesi, contando sulla dimestichezza con i meccanismi e la mentalità del Regno Unito e, soprattutto, sulla possibilità di ottenere abbastanza facilmente la “nazionalità” britannica per molti film da loro prodotti strutturalmente identici ai tradizionali blockbuster americani. In tal modo film molto importanti pressocchè interamente concepiti e gestiti dalle major americane hanno potuto contare su rilevanti agevolazioni fiscali provenienti, ad esempio, dal meccanismo del sale-and-leaseback inglese.

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