Quando a Venezia si remava sulle galee

Un’immagine abusata - Armata “grossa” e armata “sottile” - L’Arsenale, “officina del mondo” - I “bonevoglie” - La paga e il vestiario - Alla voga prigionieri di guerra, detenuti, schiavi e altra marmaglia - Il rancio - Il resto dell’equipaggio
del 24/11/21 -

La protagonista assoluta della politica commerciale ed espansionistica dell’antica Venezia è stata soprattutto la galea, detta anche galera nel senso più detentivo del termine.
Per alcuni l’etimologia sarebbe derivata dal greco “galeos”, squalo, per la forma lunga, sottile e filante, ma c’era anche chi lo faceva derivare da altro.

Un’immagine abusata
Distorta e abusata l’immagine della galea che navigava a forza di remi. In realtà la navigazione avveniva prevalentemente a vela per risparmiare i rematori, pena trovarsi con uomini esausti di fronte al nemico o in condizioni di tempo avverse. In generale su una galea “sottile”, le più diffuse, si vogava per circa un quarto del tempo trascorso in mare impegnando un terzo della ciurma a rotazione; tutta durante le manovre nei porti o in combattimento. Sulle galee “grosse”, o “da merchato”, cioè adibite prevalentemente a uso commerciale, i tempi al remo calavano di dieci volte.
Le vele latine issate sugli alberi, da uno a quattro secondo le dimensioni della nave, erano quindi di gran lunga preferite ai remi, salvo che questi ultimi, a differenza dei velieri, permettevano alla galea di muoversi anche in assenza di vento.
Le galee duravano bene dieci anni, una dozzina o poco più a essere fortunati. Poi sopravveniva ineluttabile il degrado e finivano in disarmo. Erano prodotte in serie principalmente nell’Arsenale di Venezia con pezzi intercambiabili per facilitare costruzione e manutenzione, un naviglio insuperabile per velocità e maneggevolezza.
Al momento del varo veniva assegnato un numero progressivo, ma nel gergo della marineria finivano con il prendere i nomi dei Sopracomiti al comando scelti nella classe patrizia: “la barbarigo”, “la priula”, “la mocenigo”, ecc. rispettivamente se il comandante proveniva dalle casate Barbarigo, Priuli, Mocenigo e così via. Invece le galee fornite dalle città di terraferma, comandate da nobili locali, prendevano il nome dalla città che le armava: “la trevisana”, “la padovana”, ecc.

Armata “grossa” e armata “sottile”
La flotta delle galee era identificata come l’“armata sottile”, quella a vela come l’“armata grossa”. I velieri all’inizio erano stati noleggiati o comprati all’estero, soprattutto in Olanda e in Inghilterra, poi costruiti in proprio. Tuttavia le galee per le loro caratteristiche erano preferite alle navi a vela e avevano costituito a lungo il nerbo della flotta della Serenissima. Alla caduta della Repubblica nel 1797 i francesi ne troveranno ancora 20 in servizio e tre in costruzione su un totale di 184 navigli.
Una galea “sottile” era lunga circa 45 m. e larga 5. Si vogava alla “sensile”, vale a dire che i 25 o 30 banchi di voga sulle triremi, ospitavano ciascuno tre rematori con un remo a testa. Alta la velocità se si otteneva un buon coordinamento. Con la progressiva introduzione dei forzati si era passati alla voga a “scaloccio”, cioè cinque rematori agenti su un unico remo, fino a otto sulle galee più grandi.
Le più veloci quadriremi erano adibite a particolari scopi militari o come navi ammiraglie. Senza avvenire le quinqueremi, ancora più veloci, ma che richiedevano ciurme troppo numerose. Esse già ammontavano a 150 uomini sulle sottili, che salivano a 200 e oltre sulle grosse e ancora di più sulle galeazze.

L’Arsenale, “officina del mondo”
L’Arsenale era un dispositivo tecnico e militare dove la suddivisione in corporazioni era applicata rigidamente. Una prima ripartizione delle maestranze annoverava i “marangoni”, cioè i falegnami, che attendevano alla costruzione di chiglia e mura della nave, i “calafati” che ricoprivano lo scafo di pece e i “remieri” per la costruzione dei remi. Queste tre categorie, capeggiate da “proti”, cioè maestri o architetti, coadiuvati da “sotto proti”, sorta di capi squadra, erano incluse in senso stretto tra gli Arsenalotti, letteralmente i “figli dell’Arsenale”, prima corporazione e simbolo della città.
Questa categoria di operai-soldati godeva di certi privilegi: trasmettere il posto ai figli, diritto alla pensione e garanzie in caso di malattia. All’inizio del XVI secolo un arsenalotto percepiva circa venti zecchini annui di paga e ben cento i capi.
In cambio erano stati imposti loro servizi di ordine pubblico in particolari occasioni, montare la guardia nella loggetta in piazza San Marco durante le riunioni del Maggior Consiglio e la sorveglianza della Zecca. Secondo le diverse incombenze, venivano armati di un bastone rosso, di alabarda, o del “brandistocco”, una massiccia arma inastata a tre lame. Accorrevano poi a spegnere i frequenti incendi in città e fornivano un certo numero di rematori per le galee, obbligo che le frequenti esenzioni avevano fatto finire nel dimenticatoio. Remavano inoltre sulle imbarcazioni di stato nelle cerimonie pubbliche, come sul Bucintoro, la lussuosa galea del doge.
Agli arsenalotti si aggiungevano gli addetti alle attività collaterali: gli “alboranti” per l’approntamento degli alberi, i “tagieri” per fabbricare carrucole e pulegge, gli “intagliatori” per curare le decorazioni, i “botteri” per le botti, i “filacanevi” filatori di cime di canapa al lavoro nella “tana”, dove erano impegnate anche maestranze femminili e duecento fanciulli circa fino al secolo XVI. Altre ottanta donne lavoravano a cucire le vele. C’erano poi i fonditori di cannoni e altri lavoratori ausiliari: facchini, muratori, fabbri, “segadori”, raffinatori di polvere da sparo, fabbricanti di corazze e armi varie e altri ancora.
Tutti insieme nei momenti di massima efficienza della struttura, secondo alcuni, erano arrivati a duemiladuecento persone. Per altri sarebbero stati oltre quattromila e probabilmente l’aveva sparata grossa il doge Mocenigo quando, nel 1423, aveva valutato in seimila le unità impiegate. In ogni caso l’Arsenale era la maggiore unità produttiva d’Europa, definita l’«officina del mondo», capace in caso di guerra di varare venticinque navi al mese, tra le quaranta e le sessanta all’anno di norma.

I “bonevoglie”
Fino alla metà del ‘500 per la voga sulle galee erano stati imbarcati uomini liberi chiamati “bonevoglie” che avevano costituito il nerbo principale delle flotte veneziane. La ferma durava tre anni; indispensabili robusta costituzione ed età compresa tra i diciotto e quarant’anni.
Purtroppo con il trascorrere del tempo racimolare braccia da mettere ai remi era diventato sempre più difficile. Inaridite le principali fonti di arruolamento, Grecia, Albania, Istria, il Levante e le coste dalmate, i bonevoglie, detti anche “galioti di libertà”, erano diventati merce rara. Neppure erano bastati a rinfoltire i ranghi i cosiddetti “zontaroli”, un’aggiunta di uomini fornita dai domini di terraferma, scelti a sorteggio per sei mesi, con esclusione di ecclesiastici, nobili locali ed ebrei. Questi ultimi non ebbero scampo dal metter mano alla borsa in cambio dell’esenzione, nonostante questa fosse d’ufficio.
Il rendimento delle ciurme reclutate in terraferma, che non godevano di gran fama come uomini di mare e che crepavano di stenti a un ritmo impressionante, era scarso. Invece a Venezia chiunque poteva trovare miglior paga senza marcire a un banco di voga, un lavoro mai abbastanza retribuito di fronte a un’esistenza sacrificata e a tutti i rischi connessi alla vita di mare.

La paga e il vestiario
I rematori prendevano circa dieci lire al mese quando ci volevano sei lire e quattro soldi per fare uno zecchino, mentre i comandanti ne guadagnavano novanta di zecchini. Neppure bastava a lenire gli affanni delle ciurme della flotta mercantile il beneficio di portare con sé una certa quantità di merce da vendere al ritorno per conto proprio e in esenzione di dazio, diritto inesistente sulle galee militari che pure all’occasione trasportavano merci, soprattutto le più pregiate e meno ingombranti.
Il bonavoglia incassava un anticipo al momento dell’arruolamento e il saldo al rientro. Però l’anticipo, ancorché congruo per invogliarlo, non doveva essere eccessivo per non spingerlo a sparire con i soldi e in barba alle pene comminate a chi non si fosse presentato all’imbarco.
D’altra parte, una volta rientrati a casa, costoro incorrevano talora nell’amara sorpresa del mancato pagamento del saldo pattuito. Erano così costretti a un nuovo imbarco per incassare quei soldi insieme a un nuovo anticipo, ma senza la certezza di intascare poi l’ulteriore saldo. Il calcolo funambolico e dei più biechi aveva suscitato le proteste di quei poveracci e clamorose rivolte, scontri di piazza, in un caso l’assalto ai forni al grido di “fame, fame”, ma si era perseverato nel pagarli il meno possibile, meglio ancora non pagarli affatto.
Si forniva loro un vestiario ridotto all’essenziale: un cappelletto, una casacca, braghe e calze di panno ordinario, un cappotto con cappuccio per difendersi dalla pioggia e coprirsi durante il sonno, una cintura di cuoio e un coltello. Sistemati a cielo aperto, esposti alle intemperie, pressati in spazi angusti, mangiavano, dormivano e talvolta svolgevano pure le funzioni fisiologiche al posto di voga. Pare che il lezzo emanato da questi navigli fosse percepibile anche a grande distanza nonostante ogni mattina al sorgere del sole si provvedesse a lavare le galere con abbondante acqua di mare e sottoporre gli imbarcati a identico trattamento. In generale gli stenti di una vita di gravi fatiche e pessima alimentazione scavavano vuoti spaventosi nei ranghi.

Alla voga prigionieri di guerra, detenuti, schiavi e altra marmaglia
Oltre ai bonevoglie, quando maggiore era la necessità di braccia, alla voga si mettevano in catene i prigionieri catturati su navi nemiche, predoni di mare, traditori, furfanti, ladri e compagnia cantando, disertori fuggiti dalle galere della Serenissima, da quelle del papa, di Napoli e chissà da dove ancora. Poi si compravano schiavi turchi da corsari cristiani come gli Uscocchi.
Nonostante ciò la penuria di vogatori era diventata cronica e aveva spinto il governo fin dal 1542 a riempire i banchi di voga con condannati per reati comuni, facendo scontare le pene in mare invece che in cella. In più, pur di racimolare braccia, si era chiesta la consegna di detenuti anche agli altri stati.
Cristoforo Da Canal, uno dei più validi uomini di mare della Serenissima, aveva persuaso il Senato a equipaggiare in tal modo parte della flotta, costituendo uno speciale reparto di galee mosse esclusivamente da “sforzati”. Assoluto divieto dal servirsi di galeotti per la voga sulle galeazze, evoluzione delle galee grosse, enormi, irte di artiglierie e cariche d’armati, invenzione tutta veneziana e protagonista della battaglia di Lepanto. Stesso divieto anche per le “bastarde”, una via di mezzo tra le sottili e quelle grosse, dove si imbarcavano i “Capi da Mar”, cioè alti ufficiali della flotta.
Il Senato aveva inoltre stabilito che la condanna al remo variasse dai diciotto mesi ai dodici anni ed era invalso l’uso di commutare la pena di morte in dieci anni di buona voga. Andando oltre il poveraccio diventava spesso inabile al servizio e cercava con ogni mezzo di fuggire. Tanto valeva liberarlo.
Nelle galee mosse dai condannati il numero dei bonevoglie calò drasticamente fino a soli sei per unità e impiegati per regolare i ritmi di voga. Cristoforo Da Canal aveva riformato la flotta veneziana.

Il rancio
Il punto debole della vita di bordo era l’alimentazione. Piatto principale l’eterna brodaglia di pan biscotto, cioè gallette ammollate in acqua di mare con aggiunta di olio. Veniva somministrata alla sera per non far vedere cosa conteneva la scodella, brontolavano i poveri cristi nel trangugiare il misero rancio, termine derivato da “rancido”, il che dice molto.
Il pan biscotto era prodotto dallo stato nei 32 forni dell’Arsenale, ricetta segreta e con una complicata serie di cotture, durissimo, indeperibile anche nelle condizioni più estreme, durava anni senza alterarsi. I condannati ne avevano diritto a ventidue once al giorno, ridotte a diciotto per gli schiavi turchi.
Poi zuppa di fave al mattino, una tazza di vino a giorni alterni, abbondante in caso di grossi sforzi, immancabile prima della voga arrancata durante i combattimenti. Limitate le scorte di carne rappresentate da animali vivi destinati alla macellazione a bordo, verosimile appannaggio di comandanti e ufficiali.
Cristoforo Da Canal si era sfiatato per convincere il governo a passare agli equipaggi quelle “minestre di herbette” già in uso in altre marine per favorire le funzioni intestinali, ma si era continuato a remare con lo stomaco gonfiato dalle solite zuppe mal nutrienti.
Con a bordo viveri per circa un mese, era soprattutto l’acqua a preoccupare perché chi stava ai remi ne consumava parecchia. Gli spazi ristretti non consentivano scorte oltre i quattro giorni, massimo 12 sulle galee più grandi. Sicché si era destinati a una navigazione sotto costa con frequenti soste per l’“acquata” e altri rifornimenti essenziali. Si navigava possibilmente dalla primavera all’autunno per evitare guai con il brutto tempo.

Il resto dell’equipaggio
L’equipaggio di una galea comprendeva anche “compagni”, cioè marinai addetti ai servizi di bordo, turni al timone, di vedetta, manovra delle vele e altro. Costituivano la cosiddetta “marinarezza”, punta di diamante della marina veneziana.
Invece gli uomini di spada, detti “scapoli”, si occupavano della vigilanza a bordo e costituivano il principale nucleo di combattimento, una razza poco stimata comprendente pure banditelli e falliti, questi ultimi a mezza paga. Tiravano a campare svolgendo un servizio penoso, esposti a ogni sorta di rischio, cause che ne rendevano difficile l’arruolamento.
Addetti alla navigazione erano l’Uomo di Consiglio, il Comito, il Sottocomito e il Pilota; alle cure sanitarie provvedeva l’Eccellente, detto anche Cerusico, coadiuvato dal Barbierotto per la rasatura delle teste; il Cappellano era tristemente addetto alla sepoltura dei defunti oltre alle funzioni religiose. Poi si imbarcavano il Padrone, il Sottopadrone, il Padroncino, il Capo dei Provvisionati, Capi e Sottocapi Bombardieri, l’Agozzino e gli Agozzinotti, le maestranze per la manutenzione della nave con i rispettivi garzoni, lo Scalco e il Caverner addetti a carni e cambusa, il Fante di Pizzuol, cioè la camera di poppa destinata al comandante e infine lo Scrivano coadiuvato dallo Scrivanello che, quali persone di lettere e computo, annotavano in appositi libri i rapporti di tutti gli altri. In buona sostanza, si viveva pigiati l’uno sull’altro e si facevano salti mortali per tenere infoltiti i ranghi.

Di tutto ciò parlo più diffusamente nel libro Il Signore di Notte, un giallo nella Venezia del 1605.

Gustavo Vitali

foto: modello di galea veneziana tratto dal sito Veneto Storia




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