Un romanzo dantesco ed angelico di Roberto Pasanisi recensito dal dantista Domenico Cofano

"Singolare ricostruzione del disagio esistenziale moderno, il romanzo di Pasanisi tesse i fili di una complessa e sofferta confessione autobiografica, che si proietta su più livelli narrativi e si racconta attraverso le storie di personaggi distanti fra loro, ma tutti ugualmente rispondenti ad un’esigenza di accumulazione di sensi e risposte, da giocarsi sul tavolo del bilancio definitivo". (Domenico Cofano, professore ordinario, Letteratura italiana, Università di Bari e Foggia)
del 28/02/13 -

Roberto Pasanisi, "Gli angeli", Salerno, Ripostes, 2013 (Prefazione di Romolo Runcini)







Singolare ricostruzione del disagio esistenziale moderno, il romanzo di Pasanisi tesse i fili di una complessa e sofferta confessione autobiografica, che si proietta su più livelli narrativi e si racconta attraverso le storie di personaggi distanti fra loro, ma tutti ugualmente rispondenti ad un’esigenza di accumulazione di sensi e risposte, da giocarsi sul tavolo del bilancio definitivo.
La narrazione si apre con dei versi, liberamente disposti da una mano che prescinde da infrastrutture metrico-formali, ma che rievoca e fissa sulla pagina l’eco di una lirica antica, di una «sapienza gentile», di stilnovistica memoria, che ammonisce e salva. Proprio in questi versi iniziali si cela la chiave d’accesso al percorso di conoscenza di sé, affidato ad una prosa che di quella ‘chiave’ vuole essere il commento, liricheggiante e visionario, lucido e razionale, che ne decreta, quasi a priori, l’inadeguatezza. Il lettore è infatti avvertito, fin da subito, del fallimento epistemologico dell’amore, platonicamente inteso come via per la conquista della più autentica essenza dell’essere. Sono, del resto, inequivocabili, in questa direzione, le immagini del sogno che inaugura il registro simbolistico di una scrittura spesso allusiva e sfuggente; immagini presenti, con chiara funzione profetica, nelle primissime pagine del romanzo: il giovane intellettuale, il personaggio senza nome che inizia e conclude la narrazione, e che costituisce, evidentemente, l’interprete privilegiato del dramma esistenziale dell’autore, parla di «un baratro di centinaia di metri» che lo sprofonda in un buio senza fine mentre «lei non c’era». Ma la negatività dell’esito della ricerca che sta per intraprendersi, e che evidenzia un forte pessimismo, i cui toni sono tuttavia smorzati proprio dalle atmosfere oniriche che lo suggeriscono, non compromette il valore della ricerca stessa, che si avvia con slancio, e resta costantemente ispirata da una energica tensione. Anche la scrittura, attraverso i molti termini che rimandano all’idea del buio (cupo, ombrai, notte, notturno, nero, oscurità, grigio, e così via), tradisce una sotterranea, triste consapevolezza, ma, con i termini della luce, che sono in numero assai superiore (luccicante, chiarore, stella, lampo, trasparente, bagliore, chiaro, fuoco, lucente, sole), cerca di esorcizzare l’esito finale. Mai una volta i personaggi attraversano notti senza stelle (un’espressione ricorrente, anche sul piano metaforico, nella scrittura di Pasanisi); non c’è mai un’oscurità assoluta, anche i grilli, creature della notte, friniscono come le diurne cicale. «Dolce» e «dolcemente» ritornano di continuo, affiancando a volte, e non a caso, parole di segno opposto, come, per esempio, «violenza». Lautore, dunque, crea, sia pure a partire da un sostrato negativo, ma non necessariamente in contraddizione con esso, una situazione di attesa, e dispone i suoi personaggi ad un’apertura fiduciosa verso la donna e la sua possibile funzione di guida salvifica. L’ ‘incontro’ è, infatti, sempre vissuto come un miracolo, sempre sentito come fonte di beatitudine, ed è puntualmente affidato ad una descrizione di impronta stilnovistica che ne accresce e potenzia la significatività. L’autore recupera diversi tópoi della poesia duecentesca: dal senso di smarrimento e di stupore creato dall’apparizione della donna-angelo alla perdita di ardimento e all’incapacità di parlare al suo cospetto, dagli effetti fisici provocati dal manifestarsi dell’amore ai classici motivi degli ‘occhi’ e dello ‘sguardo’.
Addirittura, se l’interpretazione non è troppo peregrina, sembrerebbe dantesca l’atmosfera dentro cui si svolge l’incontro fra il giovane intellettuale e la donna bruna, senza nome anche lei: nel salone di una banca, fra «il tramestio d’uomini e macchine», l’autore circoscrive un angolo appartato che paragona ad «un giardino concluso», dove appare una bellezza eterea, dal passo leggero, che produce nel protagonista uno stato d’animo contemplativo, senza traccia di tensione, come fosse in un’oasi di appagamento che niente vale più ad incrinare. Il ricordo dell’apparizione di Matelda nell’Eden, luogo di imperturbabile armonia, di felicità primigenia, consegnato al primo uomo come sede definitiva e ‘conclusa’ di eterna beatitudine, e, ancora, il ricordo degli effetti che tutto ciò provoca in Dante si impongono alla mente del lettore che scorre queste pagine centrali del romanzo. Inoltre, a confortare ulteriormente l’ipotesi di una suggestione dantesca, c’è il fatto che questo evento giunge nella vita del personaggio dopo sette anni di una «ferrata analisi», che però in lui non produce soluzioni di sorta poiché esiste un ostacolo insuperabile, e c’è anche il fatto che solo dopo egli comprende che ‘lei’ avrebbe potuto salvarlo. Sappiamo inoltre che il percorso purgatoriale si scandisce proprio in sette tappe, e che Matelda, in cima al Purgatorio, è deputata a rendere il pellegrino pronto a ricevere degnamente la salvezza.
Rispetto ad una possibile redenzione attraverso l’amore, questo passaggio costituisce, per l’intenso clima di aspettativa, un nodo fondamentale, da cui si diparte, a questo punto, una serie di fili narrativi giustificati, nell’impalcatura strutturale del romanzo, come ricordi o racconti di sogni, e volti ad accentuare i giochi chiaroscurali del nucleo concettuale di base, attraverso complicazioni, o, se è il caso, procedimenti semplificativi. Così entrano in scena Kid il pistolero, Nathaniel il sognatore, i due amici Felipe e Manuel; ciascuno porta con sé la storia di un incontro, o il desiderio di un incontro, sempre fortemente caricato, più o meno consapevolmente, di una funzione salvifica, di quella capacità rivelatrice di senso a cui, peraltro, l’autore fa riferimento con il verbo, questa volta indubitabilmente dantesco, «squaderna». L’epilogo tragico delle vicende dei nuovi personaggi- sia Kid, sia Nathaniel muoiono senza poter realizzare il proprio ideale d’amore - anticipa la conclusione del romanzo sul filo di un graduale inveramento della profezia iniziale; e la morte annunciata del protagonista arriva presto a suggellare l’apoteosi di un fallimento, le cui ragioni il testo stesso commenta, in modo esplicito, in pagine che assumono un taglio saggistico. L’impossibilità di realizzare un percorso intellettuale e culturale come quello tentato dai protagonisti viene passata al vaglio e dimostrata da una prospettiva che è sociologica e politica insieme. In particolar modo, la nozione di ‘industria culturale’, studiata dai filosofi della Scuola di Francoforte - una nozione tutta incentrata sull’azione coercitiva del potere, che, per mezzo dei mass-media, impone valori e comportamenti, crea i bisogni e stabilisce il linguaggio -, viene assunta dall’autore per affermare, con forza, l’attuale, e forse definitivo, stato di «omologazione maschio-femmina» che «fagocita la donna e la asserve agli imperativi ineluttabili del capitale», privando così l’amore della sua più autentica verità.
Ma esiste anche un altro elemento che può essere assunto a causa inibente, e che, forse, ha una più forte valenza autobiografica; un elemento che si scorge fra le righe e testimonia dell’assenza di una dimensione metafisica, o propriamente religiosa, o laica, necessaria ed ineludibile come forza attualizzante delle potenzialità di quel particolare percorso di conoscenza. Il richiamo a Cavalcante, eretico averroista, utilizzato contestualmente come termine di paragone fra le luci intermittenti di un night e il suo apparire e sparire nell’avello infuocato, è, probabilmente, funzionale alla negazione dell’immortalità dell’anima, all’interno di un discorso sulla visione della morte già intrapreso altrove, e più scopertamente, dal personaggio di Manuel, laddove una «splendente famiglia delle erbe e degli animali» aveva già evidenziato, foscolianamente, il distacco sentimentale e ideologico da un’idea di immortalità legata alla gloria, o, più semplicemente, all’eredità d’affetti.
Il romanzo si chiude con l’immagine dei profondi abissi del mare che ingoiano il protagonista suicida, così come si era aperto con quella degli abissi della malinconia in cui egli spesso sprofondava mentre smarriva il senso del mondo. Si celebra così l’assolutizzazione del Nulla che ammala l’uomo di un’inconsistenza d’essere e lo protende a uno scopo che mai si realizza, e a una conoscenza impossibile, condannandolo ad un eterno rinvio.
Se inizialmente l’autore lasciava indovinare una particolare corrispondenza fra sé e il giovane intellettuale, poi, quando vanno definendosi i termini di un destino di morte, egli ne prende le distanze, e reimposta il rapporto di identificazione, che è forse possibile rintracciare all’altezza dei due personaggi amici di Felipe e Manuel. Essi costituiscono, a mio avviso, le due istanze di una medesima personalità, verosimilmente proprio quella dell’autore: da una parte il senso della realtà di Felipe, «sempre in sintonia con la vita», dall’altra la spinta idealistica di Manuel, sempre alla «ricerca eccelsa della bellezza», costantemente ispirato dall’«anelito divino al sublime». Il dolore causato dall’infrangersi del sogno d’amore di Manuel non coincide con la sua morte, come invece accade per tutti gli altri personaggi, ma, attenuato dalla presenza dell’amico, si traduce in un pianto dirotto che ha il senso di una disperata rassegnazione. Sembrerebbe evidente, a questo punto, la scelta definitiva dell’autore, che, uscito dallo spazio circoscritto e personale dell’autobiografia, sembra interpretare il dualismo esistenziale di tutti gli uomini figli della modernità, sopravvissuti, ogni giorno, a ciò che sono, e, nella stessa misura, a ciò che vorrebbero essere.



Domenico Cofano
(professore ordinario, Letteratura italiana,
Università di Bari e Foggia)



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